Uno Starbucks Test per l’Italia

Marco Bardazzi | Sarà l’anno di tante cose, come sempre e come tutti gli anni. In questi giorni in cui siamo travolti dalle previsioni sul 2018, ne aggiungo una anche io. Piccola e secondaria rispetto ai grandi scenari geopolitici, ai sondaggi elettorali o alle analisi economiche sulla crescita del Paese. Però a suo modo significativa: sarà l’anno dello Starbucks Test per l’Italia.

La grande catena americana del caffè è pronta a sbarcare nel nostro Paese. Il 2018 dopo anni di rinvii sarò quello dell’apertura dei primi locali, partendo da Milano. Da come verranno accolti si capiranno tante cose su quale momento stiamo vivendo, come comunità locali e come società. Può sembrare un’esagerazione, in fondo è solo un’attività commerciale come le altre. Siamo già passati attraverso gli sbarchi di Ikea, McDonald’s o Carrefour, perché stavolta dovrebbe essere diverso? Risposta: perché stavolta è diverso. Vediamo di scoprirne le ragioni.

Due premesse:

Non ho niente a che fare dal punto di vista professionale con Starbucks, lavoro in un altro settore che non c’entra con il caffè e ovviamente qui riporto considerazioni del tutto personali.
Ho senza dubbio un pregiudizio positivo su Starbucks, perché conosco bene la Starbucks Experience. Nei quasi dieci anni in cui ho vissuto e lavorato negli USA come giornalista, ho trascorso innumerevoli ore negli stores di Starbucks. Ho scritto quattro libri seduto sulle loro poltrone o ai tavolini, bevendo una quantità spropositata di caffè e ingurgitando un numero imprecisato di blueberry muffins e di scones. Ogni volta che viaggiavo da un punto all’altro degli Stati Uniti, seguendo tre campagne presidenziali o l’ultimo uragano, gli Starbucks erano le mie “redazioni mobili”: entravo, ordinavo, attaccavo il Pc e il cellulare in ricarica alle prese della corrente, mi collegavo al loro Wi-Fi gratuito e via a lavorare.

Penso di poter dire che so di cosa parlo.

Chi non è mai stato in uno Starbucks, provi a immaginare un ambiente come la coffehouse newyorchese dove trascorrevano le giornate i protagonisti della serie televisiva Friends. Divani, tavolini, grandi tazze, intenso profumo di caffè, musica accogliente, Wi-Fi gratis. Sparsi per il locale, a ogni ora del giorno, immaginatevi ragazzi seduti davanti al laptop a scrivere la tesi di laurea. Mamme in sosta per un caffè con le amiche dopo aver lasciato i figli a scuola. Scrittori con le cuffiette alle prese con una sceneggiatura o il loro ultimo libro. Programmatori carichi di caffeina connessi in videoconferenza con colleghi dall’altra parte del mondo. Pensionati che leggono romanzi. Studenti che chattano e selfano. Manager in giacca e cravatta impegnati in colloqui di lavoro.

Moltiplicate la scena per gli oltre 27 mila negozi di Starbucks presenti nel mondo (3 mila dei quali in Cina), declinatela secondo le tradizioni dei 75 Paesi dove la catena è presente, e cominciate ad avere un’idea abbastanza significativa del fenomeno e di cosa sta dietro i 23 miliardi di dollari di ricavi annuali del gruppo.

E ora, dopo aver conquistato il mondo, Starbucks torna a casa.

Perché tutto questo in un certo senso è nato in Italia. Molti sanno che Howard Schultz – l’ex CEO e oggi presidente esecutivo del gruppo, ma soprattutto “l’inventore” di Starbucks per quello che è oggi – si è ispirato ai bar italiani per costruire l’impero. Un viaggio a Milano e Verona nei primi anni Ottanta si trasformò nell’idea che cambiò una piccola catena di torrefazione di Seattle in quello che è adesso. Il culto dell’espresso, la qualità del caffè italiano, l’atmosfera dei nostri bar sono il modello a cui Schultz ha sempre guardato.

Le bevande offerte da Starbucks hanno nomi italiani, i suoi dipendenti dietro il bancone si chiamano baristi e persino i movimenti che fanno sono studiati a imitazione di quelli di un qualsiasi bar nostrano.

Ma c’è molto di più. Schultz ha fatto dell’Italia, nel corso dei decenni, la propria “università” dove venire a imparare il design e gli arredi dei locali, ha tentato di esportare il nostro sorbetto (fallendo miseramente, peraltro) e di capire come si fa la schiuma perfetta per un cappuccino. Ha studiato le nostre torrefazioni, assorbendone l’amore per le miscele di arabica più prelibate e il rispetto per il chicco tostato bene. Ancora di più: pochi conoscono l’ammirazione e l’ossessione di Schultz per gli artigiani italiani e le loro botteghe. Una tra tutte: la storica Coltelleria Lorenzi di Via Montenapoleone, che il capo di Starbucks ha visitato decine di volte con la devozione che altri riservano alla Cappella Sistina o agli Uffizi. Pagine e pagine del libro autobiografico di Schultz, Onward, sono dedicate agli insegnamenti dell’anziano Aldo Lorenzi su come si cura un negozio e come trattare la clientela.

Starbucks, insomma, è un gigantesco atto d’amore per l’Italia e l’Italian lifestyle. Schultz ha aperto locali in tutto il mondo, ma ha sempre avuto un timore reverenziale per l’Italia, come un allievo che deve confrontarsi con il Maestro.

E qui sta il punto dello Starbucks Test per il 2018: ora che questi americani hanno trovato il coraggio di venire a “dichiararsi” al Paese di cui sono sempre stati innamorati e a cui si sono ispirati, noi come reagiremo?

Il caffè dalle nostre parti è una cosa seria e il rischio è che Starbucks venga visto come “un’americanata”, un’invasione da parte di ignoranti a stelle e strisce, che usano nomi italianeggianti per storpiare un oggetto sacro come la tazzina quotidiana. Un autorevole editorialista ha già scritto, sul più importante giornale del Paese, che come italiano considera “l’apertura in Italia di Starbucks come un’umiliazione”.

Giudizi legittimi, ci mancherebbe. Eppure sarebbe bello se accogliessimo Starbucks per quello che è: una grande opportunità.

Gli Starbucks sono in realtà dei fantastici acceleratori di creatività. In ciascuno dei 27 mila locali in questo momento c’è chi sta creando una start-up o magari inventando la nuova Facebook o Google. Sono luoghi di contaminazione intellettuale dove ogni cosa diventa possibile. Abbiamo pochi luoghi in Italia dove i nostri giovani talenti possono dare il meglio e lasciare spazio alla creatività: sedersi per ore, al prezzo di un solo caffè, in un locale con musica, coetanei e Wi-Fi offre un mix che 75 Paesi del mondo hanno già scoperto, che migliaia di italiani scoprono quando vanno in viaggio all’estero, ma che da noi ancora non esiste.

Starbucks è un’opportunità anche per chi in teoria dovrebbe temerlo, cioè i nostri bar e caffè storici. E’ un’occasione per riscoprire il loro essere punti di riferimento per la comunità locale e per il quartiere. Molti caffè questo ruolo lo hanno e lo mantengono da sempre. Ma quanti altri hanno scelto la strada di offrire invece l’esperienza solitaria delle slot-machine? (Ce ne sono 420 mila installate in 83 mila locali italiani: numeri che fanno riflettere).

E’ un’occasione anche per puntare alla qualità del caffè e rivendicare l’approccio italiano alla tazzina. Starbucks crea una situazione un po’ paradossale per l’Italia. Siamo il Paese che ha inventato e contrapposto il concetto di slow food all’americano fast food. Ma siamo anche il Paese del fast coffee da bere in un sorso al bancone, che ora viene sfidato dallo slow coffee di una società che offre una tazza da sorseggiare per ore seduti senza sovrapprezzo o limiti d’orario (anche se gran parte dei clienti probabilmente saranno quelli della cup da asporto, da bere lungo il tragitto verso l’ufficio). Questo tipo di concorrenza può giovare ai nostri bar, stimolandone l’orgoglio e migliorandone l’offerta.

Starbucks è un luogo di contaminazioni positive, di ispirazione per artisti e scrittori, uno spazio di discussione. Può sembrare esagerato, ma è un’esperienza che può aiutarci a vivere meglio i social, che sono sempre più parte della nostra vita. Facebook, Twitter, Instagram sono dei luoghi, non degli strumenti, e dobbiamo imparare ad abitarli e a utilizzarli al meglio senza trasformarli solo in arene per scontri verbali e insulti. Starbucks è probabilmente la catena più social che esista al mondo, perché è un ambiente che sembra fatto su misura per imparare la convivenza e il concetto di community.

Insomma, lo Starbucks Test che mi aspetto per il 2018 è capire come reagiremo a questa proposta e a questa dichiarazione d’amore di chi torna in Italia a dirci quanto ci ammira e quale potenziale avremmo nel mondo, se sapessimo usarlo al meglio.

Secondo voi, come risponderemo al Test?

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